Responsabilità penale del titolare di studio verso collaboratore

Il fatto
Una odontoiatra è stata condannata con sentenza del tribunale di Milano, ufficio Gip, all’esito di giudizio abbreviato, alla pena di un anno, sei mesi e 20 giorni di reclusione per aver cagionato volontariamente a una paziente lesioni dell’apparato dentale dalle quali era derivata una malattia di durata superiore ai 40 giorni, nonché l’indebolimento permanente dell’organo della masticazione. L’imputata, quale responsabile dello studio, e un dentista sedicente, in qualità di collaboratore, hanno sottoposto la cliente a complesse operazioni chirurgiche, inadeguate rispetto alla patologia sofferta, senza la prescritta abilitazione e senza le competenze tecniche richieste, nonché in difetto di valido consenso informato, tacendo inoltre la mancanza dei titoli e delle qualifiche necessarie al tipo di trattamento. A seguito di ricorso, il giudice di appello ha ritenuto non sussistente il reato di lesioni dolose, non essendo provata la volontà di cagionare la malattia e i postumi invalidanti, invece verificatisi. La corte d’appello ha ritenuto, anzi, che entrambi gli imputati, pur consapevoli dei potenziali effetti pregiudizievoli delle cure, avessero agito nella convinzione di evitarli e di risolvere i problemi sanitari. Contro la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione sia il Procuratore generale di Milano, sia la parte civile.

Il diritto e l’esito del giudizio
Il giudizio dinanzi alla Suprema Corte ruota non solo attorno alla individuazione e qualificazione dell’elemento soggettivo che sorregge l’operatore sanitario quando compie un intervento chirurgico in mancanza di valido consenso informato, provocando delle conseguenze dannose, ma anche al consenso prestato dal titolare dello studio a che un soggetto privo delle abilitazioni normative venisse a compiere attività sanitaria con esito infausto. La corte d’appello avrebbe liquidato una questione meritevole di un approfondimento molto maggiore, soprattutto non tenendo conto del fatto che al titolare dello studio dentistico non è stato contestato il dolo relativamente alla sua attività chirurgica, ma con riferimento all’attività abusiva svolta dal collaboratore: poiché questi non era un medico, era molto più elevato il rischio che si verificassero complicazioni e la dottoressa non poteva non rappresentarsi i potenziali e forse probabili effetti lesivi. La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, ha rinviato ad altro giudice affinché procedesse a nuovo giudizio, tenendo in considerazione tutte le circostanze potenzialmente indizianti dell’esistenza di un dolo indiretto. In particolare, ha aggiunto la Cassazione, si dovrà tenere in considerazione la posizione professionale del collaboratore, la cui mancanza di abilitazione rende del tutto apodittica l’affermazione della sua convinzione di evitare conseguenze negative da un intervento così delicato e invasivo.

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