Fibrosi epatica. L’alternativa alla biopsia c’è. Ma si usa poco

Il 70-80% dei casi di infiammazione cronica da epatite B e C va incontro all’epatocarcinoma. Per aiutare nella diagnosi dal 2005 esiste Fibroscan, capace di misurare in modo non invasivo, veloce e indolore la quantità di fibrosi. Molte regioni non lo rimborsano, ma è interessante l’esperienza di alcuni municipi, come il X di Roma.

Basterebbe la diagnosi precoce di alcune patologie epatiche per evitare molti casi di cirrosi e di neoplasie al fegato: basterebbe ad esempio riconoscere al più presto quel 70-80% dei casi di infiammazione cronica da epatite B e C che va incontro all’epatocarcinoma. Si tratta di un problema prioritario per la sanità italiana poiché, in questo ambito, l’indice di mortalità è passato da una percentuale di 4.8 decessi per 100 mila abitanti nel 1969 a 10.9 nel 1994 e a 12.5 nel 2000. A lanciare l’allarme è Fabrizio Soccorsi, primario emerito di Epatologia al San Camillo di Roma e consulente dei centri diagnostici Marilab. Ma uno strumento – che tuttavia ancora non è riconosciuto in convenzione in molte regioni – potrebbe aiutare nella diagnosi: si chiama Fibroscan e permette di comprendere la quantità di fibrosi presente in ogni paziente.
 
Per ridurre il numero di cirrosi e neoplasie basterebbe un sistema di diagnosi precoce delle patologie epatiche più adeguato al problema e più veloce, e così si potrebbero riconoscere anche le minime alterazioni degli enzimi epatici. E dunque fare subito la stadiazione della fibrosi epatica attraverso il test al Fibroscan, capace di svelare cirrosi silenti e misconosciute. “In questo modo aiuteremmo tante persone a scoprire una patologia sconosciuta e a tenerla sotto stretta sorveglianza clinica, evitando ulteriori complicazioni”, ha precisato l’esperto. “Oggi è fondamentale la ‘medicina preventiva’ per tutte le patologie di organo, in particolare per quella epatica”.
La sfida degli epatologi, per spronare le persone a controllarsi, è stata a lungo quella di “trovare delle metodologie alternative di ricerca che potessero supportare e surrogare l’eventuale biopsia chirurgica, il ‘gold standard’ delle procedure diagnostiche anatomopatologiche”, ha raccontato il primario. La biopsia chirurgica è una diagnosi “invasiva e dolorosa, tale da poter indurre complicanze, scoraggiando molte persone a sottoporsi al controllo. Una procedura – sottolinea il consulente Marilab – che tra l’altro non è detto abbia un’affidabilità assoluta, potendo essere influenzata da un eventuale errore di campionamento e/o da una interpretazione spesso non univoca”.
 
Ma nel 2005 è finalmente arrivato in Italia il Fibroscan,strumento simile all’ecografo e capace di misurare in modo non invasivo, veloce e indolore la quantità di fibrosi, e che può dunque aiutare proprio nella stadiazione della malattia. Lo strumento, come spiegano anche i National Institutes of Health statunitensi, in molti casi può essere molto migliore della biopsia: è meno invasivo e può essere effettuato in laboratorio, la sua interpretazione è meno dipendente dal singolo professionista rispetto a quella di una biopsia,  analizza tutto il fegato e non solo un campione, i risultati sono quasi istantanei e, ultimo ma non meno importante, è molto più economico di un intervento. Inoltre, rispetto ad altri test come quelli con biomarker o come la risonanza magnetica non ha bisogno di laboratori di analisi che abbiano particolari macchinari e funziona per ogni tipo di fibrosi. Gli unici pazienti sui quail Fibrotest non è particolarmente affidabile o non può essere applicato sono gli obesi o coloro che presentano un grande quantitativo di grasso sulla parete toracica e gli individui che presentano ascite. “Con questo strumento possiamo ripetere, in tempo reale e in maniera accurata la biopsia non invasiva e valutare, ad esempio, se c’è stata una modifica da parte del farmaco sulla malattia del fegato”, ha commentato Soccorsi. Così, oggi è possibile “limitare al 3-4% la biopsia chirurgica, affidando il resto al Fibroscan, che costituisce il ‘gold standard’ nelle malattie croniche del fegato e in particolare da virus C”. In ogni caso, per il medico, la regola generale è: “Tutti dovrebbero passare sotto le forche caudine del Fibroscan, che fa da spartiacque tra un fegato sano ed uno malato, stabilendo che tipo di fibrosi rappresenta. In base alla classificazione è poi possibile migliorare la performance del paziente e allontanarlo quanto più possibile da cirrosi e tumore al fegato”.

 
Tuttavia, molte regioni “a tutt’oggi non riconoscono l’elastografia epatica come convenzione, non creando i presupposti per l’accredito”. Tra queste, ad esempio, c’è ad esempio anche il Lazio. Nonostante questo a Roma, seppure solo in 3 ospedali (Policlinico Gemelli, Policlinico Umberto I e Ospedale di Marino) avendo l’attrezzatura un costo molto elevato,  il Fibroscan è presente da 4 anni, quale strumento di alta specializzazione. “Nel privato – fa sapere il professore – è presente esclusivamente nei centri Marilab”. Inoltre, poiché negli ospedali “le liste di attesa sono spesso troppo lunghe, anche per effettuare un’ecografia o una Tac, e le persone con difficoltà economiche finiscono per ritardare i controlli – afferma il direttore sanitario – abbiamo iniziato a pensare ad una ‘medicina sociale’ più attenta ai cittadini meno abbienti”. Infatti, il Gruppo Marilab ha aperto a giugno una convenzione con i centri anziani del X Municipio, che contano circa 18 mila iscritti: così un anziano da Marilab paga la prestazione come un ticket in ospedale con tariffe agevolate ed evitando di rimanere appeso per mesi con conseguenze tragiche per la sua salute.

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Allo stesso modo, il gruppo di esperti suggerisce che ad altre lesioni simili rilevate durante gli screening per il cancro al seno, alla prostata, alla tiroide o ai polmoni possa essere cambiato nome, e che si smetta di fare riferimento ai tumori nella loro diagnosi. In particolare, queste dovrebbero essere riclassificate come “lesioni indolenti di origine epiteliale” (IDLE, indolent lesions of epithelial origin). “Abbiamo bisogno di una nuova definizione, che sia più adatta al 21esimo secolo in cui viviamo, e che non alluda al cancro inteso come era inteso nel 19esimo secolo”, ha spiegato Otis W. Brawley dell’American Cancer Society, esperto che non era direttamente coinvolto nel report pubblicato su Jama.
 
L’arrivo di tecnologie di screening sempre più sensibili e precise negli ultimi anni ha aumentato la probabilità di trovare incidentalmente masse neoplastiche (benigne o maligne che siano). Si tratta appunto dei cosiddetti “incidentalomi”, che vengono rilevati durante analisi più o meno approfondite, e che probabilmente non causerebbero sintomi né problemi di alcun tipo. Tuttavia, una volta scoperti, inizia la procedura standard: prima biopsia, poi trattamento o rimozione. Il tutto accompagnato da dolore fisico e spesso psicologico e non privo di qualche rischio. Si tratta di quelle che gli esperti chiamano sovradiagnosi, e le terapie che ne conseguono sono chiamate sovra trattamenti, procedure farmacologiche o chirurgiche che in realtà potrebbero essere evitate. Anche perché questo tipo di trattamento aggressivo per le lesioni precancerose non ha nel tempo portato a una riduzione dei tumori invasivi.
Secondo molti esperti “cambiare il linguaggio che si usa nelle diagnosi è essenziale per dare ai pazienti la fiducia che non c’è bisogno di trattare in maniera così aggressiva ogni massa che emerge dalle analisi”, come ha spiegato Laura J. Esserman, direttrice del Carol Franc Buck Breast Care Center dell’Università della California di San Francisco e prima autrice del report. “Il problema è che il paziente sente la parola “cancro” e pensa che morirà a meno che non venga trattato al più presto. Probabilmente sarebbe più intelligente riservare questo termine per le condizioni che hanno qualche probabilità in più di creare un vero problema”.
 
Chiaramente gli stessi esperti che hanno proposto questo cambiamento sanno che non sarà accettato universalmente. La preoccupazione di molti, infatti, è che poiché i medici non sanno ancora sempre discernere quali siano i tumori benigni o a crescita lenta dalle patologie più aggressive, trattano tutte le condizioni come se fossero gravi. Come risultato, scovano e trattano dozzine di lesioni precancerose e tumori allo stato iniziale che non per forza sarebbero da trattare. “Cambiare la terminologia non risolve questo problema”, ha commentato Larry Norton, direttore medico dell’Evelyn H. Lauder Breast Center del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center. “Quali casi di “lesioni indolenti di origine epiteliale” porteranno a un cancro e quali no?”, ha provocato. “Mi piacerebbe saperlo. Noi non abbiamo modo di guardare al microscopio un tessuto che viene dal carcinoma duttale in situ e dire con sicurezza che al massimo porterà a un cancro a crescita lenta”.
Tuttavia, la discussione che si sta aprendo nel mondo accademico e clinico a partire da questo report è comunque un passo in avanti. “I nostri scienziati non cercano solo nuovi metodi per scovare i tumori ad uno stadio iniziale, ma stanno anche cercando il modo di capire se c’è modo di dire quanto saranno aggressivi”, ha concluso il Nobel Varmus. “E questo è già un bel cambiamento nel modo di pensare rispetto a 20 anni fa. Ci sarà un giorno in cui la prima cosa che proveranno i pazienti cui verrà diagnosticato un cancro non sarà l’intensa paura per la sensazione di aver appena ricevuto una condanna a morte”.

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